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   Da molti anni il mese di agosto lo passavo da zia Luisa. Nel suo eremo, diceva lei. La zia abitava in un paese dove le ceste si chiamavano coffe e gli armadi armuàr. Insomma un posto dove erano passati tanti marinai e si erano mescolate molte parole. 
   Anche i pirati erano sbarcati nell’ insenatura. Per tenerli lontani erano state costruite torri d’avvistamento. Erano a pianta quadrata, con muri spessi e una sola finestra per lato, piccola e in alto come l’occhio di un ciclope. E, in cima, una terrazza dove accendere un falò per avvisare del pericolo. Ce n’erano alcune sulla costa, su rocce che entravano nel mare. Erano sempre esposte al vento e alle mareggiate, ed era difficile arrivarci. 
   D’estate le case del paese si riempivano di turisti che vociavano nelle piazzette illuminate e nei ristoranti che si aprivano come grotte lungo i vicoli in discesa. Il paese scendeva dalla collina al mare. O saliva dal mare alla collina. Era una questione di prospettiva, diceva la zia. Io preferivo pensare che scendesse verso il mare, per desiderio di incontri. Sì, insomma, mi sembrava che dal mare venisse la vita allegra, il vocio, il richiamo, una promessa che mi attirava. Dal mare arrivavano traghetti con turisti, barche con pesce fresco, feluche per gite lungo la costa. Dal mare si alzava il sole.
   D’inverno il mare era mosso, l’umidità saliva lungo i muri delle case e il paese rimaneva mezzo vuoto. Lo immaginavo un po’ triste. Ma zia Luisa diceva che era bello lo stesso, anzi, forse ancora più bello. E quando la salsedine bagnava anche le imposte della casa, lei trovava che il respiro fosse più leggero e la mente rilassata. “Sono un pesce in salamoia” mi diceva al telefono “E quando sono così, vivo bene e scrivo benissimo”. E io la rivedevo al computer a scrivere i suoi articoli di botanica. 
   La invidiavo. Lei respirava gli spruzzi del mare e io ero chiusa tra le pareti della mia aula. Non potevo dire che mi sentissi un pesce in salamoia e avessi la mente rilassata... Infatti scrivevo brutti temi. 
   A scuola dovevo sorbirmi noiose spiegazioni e insopportabili prediche, e restare incollata alla sedia tutta la mattina. Due volte alla settimana anche il pomeriggio. Tornavo a casa che era già buio e avevo voglia di rovesciare il mondo. Parlare al telefono con zia Luisa mi faceva desiderare il mare. E volevo essere anch’io un pesce in salamoia.
   Dalla spiaggia, guardando verso est, si vedeva la casa saracena.
   Era affondata tra ginestre e agavi su uno sperone di roccia in faccia al mare, e nessuno sapeva perché la chiamassero così. I coppi sbiaditi del tetto si vedevano a distanza, ma le finestre si notavano appena. Eppure facevano pensare a occhi segreti rivolti all’orizzonte. Occhi schermati da persiane color salvia, che sembravano avere assorbito il tempo e tutti i colori della natura. D’estate, quando le foglie diventavano più fitte, nessuno si accorgeva che una persiana restava sempre aperta. Era quella della stanza di sudest.